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giovedì 28 dicembre 2017

Inflazione e disoccupazione

Per lungo tempo, e soprattutto nel secondo dopoguerra, si è creduto che esistesse una stabile relazione di causalità tra il tasso d'inflazione ed il tasso di disoccupazione. Tale relazione - rappresentata tramite la celebre curva di Phillips - stabiliva un rapporto di proporzionalità inversa tra le due quantità: ci si aspettava di osservare contemporaneamente prezzi crescenti e disoccupazione calante o, viceversa, bassa inflazione e disoccupazione in aumento. In questo articolo considereremo tre modi di "interpretare" questa relazione, spiegando gli errori alla base dei rispettivi ragionamenti.


L'INFLAZIONE RIDUCE LA DISOCCUPAZIONE? 

La disoccupazione deriva dal fatto che gli stipendi chiesti dai disoccupati in cambio della disponibilità a lavorare siano superiori a quelli che le aziende sono disposte a pagar loro. In altri termini, una parte della domanda di lavoro non riesce ad "incontrare" una parte dell'offerta di lavoro. Per lo stesso motivo, durante una crisi economica, i lavoratori che non accettano riduzioni salariali finiscono col perdere il posto di lavoro. Infatti gli economisti di scuola keynesiana sostengono che i salari nominali (espressi al valore facciale, es. 1000 €) richiesti dai lavoratori siano troppo "rigidi verso il basso", cioè che non calino quanto dovrebbero per evitare la disoccupazione di una parte della forza lavoro.
In tale contesto, l'inflazione consente di aggirare il problema: quando aumentano i prezzi, le aziende possono aumentare (o evitare di ridurre) i salari nominali [1]. In questo modo, i disoccupati si fanno assumere e gli occupati non vengono licenziati. Chiaramente si tratta di un modo per ingannare i lavoratori. Infatti quello che conta è il salario reale, cioè il potere d'acquisto dello stipendio: se aumentano i prezzi, lo stesso salario nominale può comprare meno cose, quindi il salario reale cala. Non c'è quindi alcuna differenza tra (A) ridurre lo stipendio del 10% a prezzi costanti, e (B) lasciare invariato lo stipendio, mentre i prezzi crescono del 10%. Il salario reale cala del 10% in entrambi i casi, ma i primi economisti keynesiani credevano [2] che i lavoratori avrebbero accettato più facilmente l'opzione (B) rispetto all'opzione (A).

In base al ragionamento sopra descritto, un'inflazione elevata consente di ridurre parecchio i salari reali, di assumere più dipendenti e ridurre la disoccupazione. I lavoratori, concentrandosi solo sullo stipendio nominale, si lasciano ingannare dall'inflazione e finiscono con l'accettare un salario reale minore. Dunque il Governo - tramite la sua Banca Centrale - dovrebbe perseguire un tasso d'inflazione elevato. Tuttavia, il problema di questa logica è quello di assumere che i lavoratori siano (essenzialmente) stupidi, mentre invece sono persone normodotate come le altre. Un'inflazione imprevista può coglierli di sorpresa, ingannandoli temporaneamente sul valore reale dello stipendio offerto dalle imprese; si tratta però di un effetto (per l'appunto) temporaneo. Appena i lavoratori si rendono conto della riduzione del loro potere d'acquisto, chiedono stipendi nominali più elevati al fine di ripristinarlo. Alla fine della fiera, la disoccupazione torna ai livelli precedenti.
Produrre inflazione elevata tramite la politica monetaria non può ridurre stabilmente la disoccupazione. Se si tratta di un intervento singolo, i suoi effetti scompaiono a breve. Se si tratta di un intervento continuato nel tempo, prima o poi i lavoratori lo capiscono e riescono ad anticiparlo - in tal caso, si dice che la curva di Phillips venga "spostata" dalle aspettative di inflazione. Infatti esistono paesi dove il perdurare di un'inflazione cronicamente elevata non ha più alcun effetto sulla disoccupazione.

Tasso di disoccupazione (verde) e tasso d'inflazione (rosa) nelle principali economie avanzate, 1960-2015. Si può notare come, durante gli anni '70, si presentarono contemporaneamente inflazione elevata e disoccupazione crescente. 

Questa teoria è stata largamente abbandonata dopo gli anni '70, durante i quali inflazione e disoccupazione aumentarono contemporaneamente - una cosa impossibile da spiegare in base ai suoi assunti [3]. Dunque oggi si ritiene che la disoccupazione possa essere ridotta da aumenti imprevisti del tasso d'inflazione [4]: se i prezzi aumentano sempre più velocemente, i lavoratori non possono prevedere quanto dovrebbero aumentare i salari nominali per compensare tale fenomeno. Si tratta comunque di una politica impossibile da mettere in atto, poiché comporterebbe un aumento continuo del tasso d'inflazione (fino a sfociare nell'iperinflazione) con tutte le conseguenze negative che ne derivano. Se dunque i salari chiesti dai lavoratori sono troppo elevati, la soluzione consiste - semplicemente - nell'abolire tutte le forme di intervento statale che contribuiscono a renderli tali [5].

L'OCCUPAZIONE AUMENTA L'INFLAZIONE?

Una seconda interpretazione della curva di Phillips sostiene che, quando la disoccupazione è bassa, le aziende siano costrette a pagare salari più elevati [6]. Di conseguenza, esse sono costrette ad aumentare anche il prezzo di vendita dei loro prodotti. Questa logica implica che l'inflazione sia una conseguenza (non una causa!) dell'alto numero di lavoratori occupati, e che perciò debba essere "sopportata" quale prezzo da scontare per una bassa disoccupazione. Tuttavia, questa interpretazione è vulnerabile sia dal lato teorico che da quello empirico.
Supponiamo infatti che i lavoratori di un'azienda ottengano salari più elevati [7]. I casi possibili sono due: o i proprietari lasciano invariati i prezzi dei beni prodotti dall'azienda - e quindi accettano una riduzione dei loro profitti - oppure li alzano. Nel primo caso, i maggiori salari sono compensati dai minori profitti: la maggiore spesa per consumi/investimenti dei lavoratori corrisponde quindi a una pari riduzione dei consumi/investimenti dei datori di lavoro. Non c'è motivo di credere che la domanda aggregata aumenti, e quindi non c'è motivo logico per sostenere che il livello generale dei prezzi possa aumentare (tant'è che, per l'azienda considerata, i prezzi sono rimasti invariati). Nel secondo caso, supponendo che l'aumento dei prezzi non riduca la domanda dei prodotti venduti dall'azienda [8], i clienti di quest'ultima vedono diminuire la quantità di denaro che possono spendere in altri beni e servizi. Quindi la maggiore spesa dei lavoratori è compensata dalla minore spesa di altre persone; la domanda aggregata rimane allo stesso livello, quindi anche il livello generale dei prezzi (tanto aumentano alcuni, tanto diminuiscono gli altri). Questi ragionamenti possono essere estesi a un qualsivoglia numero di aziende, perciò la conclusione è che aumentare i salari - di per sé - non possa causare un aumento generale dei prezzi.
Dal lato empirico, non mancano certo esempi di inflazione elevata e di bassa occupazione (o, viceversa, di bassa inflazione ed alta occupazione). Si considerino le seguenti figure:

Confronto tra i tassi di disoccupazione d'inflazione di 4 paesi: Suriname, Etiopia, Eritrea e Argentina. Nei periodi presi in esame, ciascuno di questi paesi è stato afflitto da inflazione elevata e da un consistente tasso di disoccupazione. Si possono inoltre osservare varie occasioni in cui un aumento (diminuzione) del numero di disoccupati è avvenuto contemporaneamente ad un aumento (diminuzione) del tasso d'inflazione. 

E' evidente che l'andamento dei prezzi osservato per questi (ed altri) paesi non si possa spiegare col maggiore/minore potere contrattuale dei lavoratori. Quando il 18% (ma anche l'8%) della forza lavoro sta attivamente cercando un impiego, è difficile sostenere che i lavoratori abbiano un potere contrattuale tale da causare un 30% (o un 10%) d'inflazione su base annuale. A prescindere dalle falle logiche della tesi sottostante.

INFLAZIONE IMPOSSIBILE SENZA PIENA OCCUPAZIONE?

Un'ultimo filone di pensiero, pressoché (di)sconosciuto in ambito accademico ma diffuso in ambienti più "informali", sostiene che non ci possa essere inflazione senza aver prima raggiunto la piena occupazione della forza lavoro. L'idea alla base è che un aumento della domanda di beni abbia come prima conseguenza quella di far assumere i disoccupati, e che l'inflazione si presenti solo nel momento in cui non sia possibile aumentare ulteriormente l'offerta di beni (poiché - appunto - non ci sono più disoccupati da assumere). In base a tale premessa, la tipica proposta è quella di "stampare" denaro e farlo spendere al Governo, così da aumentare la domanda fino a raggiungere la piena occupazione. 
Dal punto di vista empirico, tale affermazione è palesemente errata: ogni anno, in ogni paese del globo, si osservano contemporaneamente un tasso d'inflazione positivo e un tasso di disoccupazione nettamente diverso da zero (spesso elevato, tra l'altro). Certo, un singolo paese in un singolo anno può costituire la classica eccezione alla regola, ma si tratta appunto di un'eccezione. Comunque, i dati citati precedentemente in questo articolo sono altrettanto validi per smentire anche questa teoria.

Tasso di disoccupazione (blu, scala di valori a sinistra) e tasso d'inflazione (nero, scala di valori a destra) italiani tra il 1985 ed il 2012. Nei primi 20 anni del grafico, la disoccupazione è stata superiore all'8% pur in presenza di un'inflazione quasi sempre superiore al 2% annuo (e, per i primi 10 anni, superiore al 4%). Inoltre, dal 2008 al 2012 la disoccupazione è salita dal 6% all'11% nonostante un tasso d'inflazione che ha toccato punte del 3-4% (senza mai diventare negativo). 

Si può dedurre che qualcosa non torni anche tramite un semplice esperimento mentale: se la quantità di moneta in possesso di ogni cittadino venisse raddoppiata all'istante per decreto governativo, ci si aspetterebbe un automatico raddoppio dei prezzi - indipendentemente dal tasso di disoccupazione [9]. L'aumento della domanda (in termini monetari) agirebbe solo sui prezzi, ignorando completamente il numero di disoccupati e smentendo la teoria sopra descritta. Per capire come mai, dobbiamo considerare i suoi due principali errori.
Il primo consiste nell'ipotizzare che la produzione possa soddisfare immediatamente la maggiore domanda di beni. Questo però non è possibile: la produzione di beni richiede tempo e risorse (materie prime, macchinari e manodopera specializzata). Non è affatto scontato che la domanda aggiuntiva si concentri proprio sui settori in cui abbondano le risorse inutilizzate [10,11]. Ma, anche qualora lo facesse, resta il fattore tempo: la creazione di moneta aumenta subito la domanda, mentre ci vuole tempo per produrre i beni richiesti. La prima conseguenza della maggiore domanda è quindi un aumento dei prezzi.
C'è poi il problema di come convincere i disoccupati a farsi assumere. Come spiegato all'inizio di questo articolo, la disoccupazione deriva dal fatto che gli stipendi offerti dalle aziende siano inferiori a quelli richiesti dai disoccupati. Dunque il secondo errore consiste nel trascurare questo aspetto e le sue logiche conseguenze. Se vogliono assumere nuovi dipendenti, le aziende devono aumentare i salari e, di conseguenza, i prezzi dei beni che producono. E' l'aumento dei prezzi - reso possibile dalla creazione di moneta - che consente di offrire salari nominali più elevati. Quindi (1) l'inflazione si presenta fin da subito, anche senza raggiungere la piena occupazione, e (2) il numero di disoccupati diminuisce (se lo fa) solo perché quest'ultimi, ingannati dall'aumento dei salari nominali, stanno accettando una riduzione dei salari reali.
Tornando all'esperimento mentale, è ora evidente perché si abbia inflazione senza aver raggiunto la piena occupazione. Quando l'aumento di moneta e le sue modalità vengono annunciate dal Governo, chiunque è in grado di prevedere la futura dinamica dei prezzi [12]. I lavoratori e i disoccupati non si fanno ingannare, e pretendono un raddoppio dei salari precedentemente richiesti; così i disoccupati continuano ad essere disoccupati.

Concludiamo questa sezione notando che, contrariamente alle proposte dei sostenitori di questa teoria, non c'è bisogno che sia il Governo a spendere la moneta creata dalla Banca Centrale. Nel sistema monetario attuale, lo fanno le banche: l'attuale tasso d'inflazione deriva dalla moneta messa in circolazione dai prestiti di quest'ultime [13]. La piena occupazione non è ancora stata raggiunta, però, e non c'è motivo di credere che il Governo avrebbe saputo fare di meglio (minore disoccupazione a parità di inflazione).

CONCLUSIONI

Un'inflazione inaspettatamente elevata può ridurre la disoccupazione per un breve periodo di tempo, ma chi propone di farne una prassi di politica monetaria sta sovrastimando i benefici di breve termine e sottostimando i danni collaterali di tale proposta. Invece l'idea che l'inflazione sia conseguenza del numero di lavoratori occupati è totalmente infondata, ed è un maldestro tentativo per negare le cause monetarie dell'aumento dei prezzi. Infine, la teoria secondo cui non ci possa essere inflazione senza aver prima raggiunto la piena occupazione risulta tanto errata sul piano empirico quanto su quello teorico.
In conclusione, una stabile riduzione della disoccupazione può essere ottenuta solo tramite riforme che semplifichino il mercato del lavoro, alleggerendo il fardello burocratico/fiscale che grava su chi vuole aprire un'impresa ed assumere dei dipendenti. 

Weierstrass

[1] I ricavi di un'azienda sono pari al prodotto tra il prezzo di vendita del singolo bene e il numero di beni venduti. Se aumentano tutti i prezzi (inflazione) aumentano anche i ricavi. Ovviamente aumentano anche i costi di produzione, ma gli economisti keynesiani ritengono che una parte di essi - i salari - possano aumentare meno di quanto facciano gli altri prezzi. L'azienda, cioè, può aumentare i salari meno di quanto aumentano i suoi ricavi. 

[2] Un lavoratore non accetta facilmente che il suo stipendio venga ridotto del 10% (es. da 1000 €/mese a 900 €/mese). Quindi protesta, sciopera, etc. Invece accetta più volentieri che il suo stipendio rimanga invariato a 1000€/mese anche se i prezzi aumentano del 10%. Questo, almeno, secondo il pensiero di Keynes. 

[3] In questo caso non ce n'è bisogno, ma ricordiamo che le cause dell'inflazione di quegli anni furono principalmente (se non esclusivamente) monetarie. Ma anche se le crisi petrolifere fossero state le uniche cause dell'aumento dei prezzi, il problema rimane: di fronte a costi di produzione crescenti, i datori di lavoro avrebbero potuto aumentare i salari nominali in misura minore, riducendo così la disoccupazione tramite il calo dei salari reali. Invece le cose sono andate diversamente, ed è per questo che la teoria è stata abbandonata o, quantomeno, modificata per introdurre le aspettative d'inflazione. 

[4] Un aumento del tasso d'inflazione significa non solo che i prezzi stiano aumentando, ma che lo stiano facendo a un ritmo più veloce rispetto a prima.  

[5] Salari/tariffari minimi, contratti collettivi del lavoro, sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, privilegi sindacali, etc. Si noti che non ha alcun senso logico appoggiare queste (ed altre) misure - il cui effetto è di aumentare artificialmente il salario chiesto dai lavoratori - se poi si propone di fregare i lavoratori tramite inflazione. 

[6] Una minore offerta di lavoratori causa, a parità di domanda, un aumento del prezzo del loro lavoro (cioè un aumento del loro stipendio). 

[7] Quanto più elevati? 1%, 10%, 100% o più? La teoria, così esposta, è compatibile con qualsiasi aumento dei prezzi e dei salari. Già questo dovrebbe suggerire che si sta trascurando qualcosa. 

[8] Altrimenti l'azienda dovrebbe licenziare dei dipendenti, cosa che spingerebbe i salari nuovamente verso il basso. 

[9] L'operazione sarebbe equivalente ad effettuare un cambio 1 € -> 2 €. O, se si preferisce, a fare due cambi di valuta in successione: prima 1 € -> 2 £, poi 1 £ -> 1 €. Col primo cambio, ciò che costava 1 € finisce col costare 2 £; col secondo cambio, ciò che costava 2 £ finisce col costare 2 €. In sostanza, cambiare i numeri impressi su ciascuna moneta, banconota e c/c esistente non può cambiare di una virgola la situazione economica del paese. Altrimenti lo farebbero tutti i paesi. 

[10] Per esempio, un numero rilevante dei disoccupati italiani proviene dal settore dell'edilizia. Se domani aumentasse la quantità di moneta in circolazione, nulla garantisce che la gente spenderebbe quei soldi proprio nel settore edilizio; è probabile invece che li spenderebbe anche e soprattutto in altri settori, in cui quei disoccupati non hanno alcuna competenza. 

[11] Con riferimento alla nota precedente, si può immaginare che la Banca Centrale monetizzi il deficit del Governo e che quest'ultimo investa in uno dei settori in crisi (es. l'edilizia). In questo caso, le risorse inutilizzate corrispondono a quelle richieste dalla maggiore domanda di beni. Che senso ha, però, stimolare la produzione di beni non richiesti dal mercato (cioè dai consumatori)? 

[12] Come abbiamo visto, l'unico modo per ingannare i lavoratori è creare inflazione in maniera inaspettata. In un certo senso, l'attuale sistema monetaria ha una componente imprevedibile: la moneta creata dalla Banca Centrale viene prestata al settore bancario, il quale può impiegarla in modi diversi. Qualora la nuova moneta venga convogliata nel settore finanziario, inizialmente aumenterà i prezzi dei titoli finanziari; qualora venga impiegata per acquistare determinati beni/servizi, aumenterà inizialmente il prezzo di quest'ultimi. E' quindi difficile prevedere ex ante quali prezzi verranno cambiati per primi e in che misura. 

[13] La tipica obiezione è che, attualmente, il sistema bancario non sta prestando quanto potrebbe. Il motivo l'abbiamo già spiegato qui, e consiste nell'insieme di regole e di requisiti che vincolano la concessione di credito a soggetti privati da parte delle banche. Chi fa questa obiezione dovrebbe quindi chiedere di abolire (o quantomeno di allentare) le restrizioni imposte al sistema bancario. In ogni caso, il fatto che ci sia un tasso d'inflazione positivo significa che già quel "poco" credito concesso è sufficiente ad alzare i prezzi - ma senza piena occupazione!

10 commenti:

  1. Sarebbe interessante un afticolo con la tua opinione sul thatcherismo. La mia è solo un'idea, non prenderla come un'imposizione.

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  2. Mi piacerebbe se cominciassi a commentare alcuni articoli che promuovono politiche non compatibili con la libertà economica. Un esempio sarebbe quello di oggi di Business Insider

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    1. Salve
      Ti riferisci a quello su Stiglitz ( https://it.businessinsider.com/il-nobel-per-leconomia-joseph-stiglitz-spiega-perche-le-idee-di-milton-friedman-hanno-contribuito-alla-crescente-disuguaglianza-negli-usa/ )?
      L'idea di commentare articoli/paper è interessante, devo solo trovare il tempo! Grazie per il suggerimento!

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    2. Esattamente, mi riferivo proprio a quello. Interessante sarebbe anche continuare la serie "miti statalisti" con gli errori del welfarismo basati su uno sbagliato approccio alla legge dell'utilità marginale decrescente, aspramente criticato da Lionel Robbins.
      Spero di non averti(permettimi il tu) caricato di idee, a presto.

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    3. E' passato un (bel) po' di tempo, ma alla fine ho scritto qualcosa sul fatto di citare l'utilità marginale a proposito delle tasse ( http://ride-bene-chi-ha-buon-senso.blogspot.com/2020/08/misti-statalisti-13-progressivita.html ).

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    4. Letto. Articolo ben fatto e soprattutto grazie per aver accolto il consiglio. Ne approfitto per darti altri spunti, la butto lì e spero di non essere troppo indiscreto: qualche articolo sulle baggianate post-keynesiane, quota salari sul PIL e compagnia bella, magari qualche cosa sulle teorie keynesine ci starebbe, oppure potresti trattare temi più squisitamente italiani sempre a sfondo econonico o anche sociale (giustizia, immigrazione, legalizzazione droghe ecc...), perché no. Ripeto, non voglio essere indiscreto, ho solo scritto di pugno quelle quattro cose che mi passavano per la testa. So che prendi questo blog come passatempo e che posti con frequenza irregolare, nonostante questo fa sempre piacere leggerti.

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    5. Nessuna indiscrezione! Anzi, mi fa piacere che a qualcuno possa interessare il mio punto di vista sugli argomenti che hai citato. Da tempo avrei voglia di commentare/presentare le teorie keynesiana, monetarista e austriaca, quindi qualcosa è già "in cantiere". E, come sempre, ogni suggerimento è ben accetto! Grazie

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  3. Questo commento è stato eliminato da un amministratore del blog.

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