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martedì 22 novembre 2016

Miti statalisti: #3 salario minimo

Alcuni lavoratori ricevono un salario orario molto basso (perlomeno se confrontato con la media nazionale). Gli statalisti ritengono che quei lavoratori siano "sfruttati" dalle proprie aziende, e che questo problema possa essere risolto dall'introduzione di un salario minimo legale. Ovvero: affinché una persona venga assunta (o tenuta) come dipendente, la sua azienda deve corrisponderle un salario pari o superiore al minimo stabilito per legge. Per esempio, negli USA sono state organizzate diverse manifestazioni in favore dell'innalzamento del salario minimo: dagli attuali 7.25 $ a 15 $ l'ora. Il mito dice che questa iniziativa migliorerà le condizioni di vita dei lavoratori interessati, garantendo loro un salario più elevato. 


Tuttavia qualcosa non torna: se il salario minimo legale fosse davvero una buona cosa, senza conseguenze negative, perché fermarsi a 15 $ l'ora? Perché non alzarlo fino a 20, 200 o 2'000 $ l'ora? Evidentemente anche i sostenitori del salario minimo riconoscono (perlomeno inconsciamente) che da qualche parte, nascosta, ci sia una fregatura.
Infatti - come abbiamo già sottolineato - la compensazione del lavoratore dipende dalla sua produttività. Se un dipendente fa guadagnare [1] alla propria azienda meno di 15 $ l'ora, è impossibile che quest'ultima possa corrispondergli un salario di 15 $ l'ora. Quindi, se costretta a scegliere, l'azienda preferirà licenziare il dipendente piuttosto che tenerlo in perdita; e di certo non assumerà un disoccupato, a meno che la sua produttività sia sufficientemente elevata. Ecco dunque l'amara verità: il salario minimo rende disoccupate tutte le persone che generano, per la propria azienda, un guadagno inferiore ad esso. C'è poi da considerare che tale guadagno deve remunerare anche chi ha fornito il capitale [2], per cui solo chi produce un guadagno sufficientemente superiore al salario minimo non viene licenziato a causa di esso.

Certamente esistono margini di elasticità. Prima di licenziare i suoi dipendenti, un'azienda potrebbe accettare di ridurre temporaneamente i suoi profitti...ma solo se il salario minimo fosse di poco superiore a quello che già ricevono in sua assenza. Si tratterebbe quindi di eccezioni alla regola, oltretutto accompagnate da effetti collaterali poco piacevoli: l'azienda cercherebbe di aumentare i prezzi e/o di far impegnare di più i suoi dipendenti (per incrementarne la produttività). Va notato che tale scenario risulterebbe peggiore per entrambe le parti, poiché - se così non fosse - verrebbe implementato anche in assenza del salario minimo [3].
E se nel breve periodo non c'è alcun effetto netto positivo per i dipendenti meno produttivi, nel lungo la loro situazione peggiora. Alzare il salario minimo spinge le imprese a ridurre i futuri aumenti salariali, a trasferirsi in altri paesi o a sostituire i propri dipendenti con una maggiore automazione.

Un altro modo - probabilmente più intuitivo - per comprendere la fallacia del salario minimo consiste nell'applicare la legge della domanda e dell'offerta. Se il Governo stabilisse un prezzo minimo per il vino, diciamo 10 € al litro, qualcuno continuerebbe a comprare quello "in cartone" (roba che, fino al giorno prima, nessuno avrebbe comprato per più di 2 €/litro)? La risposta è ovvia: no. E la cosa non si fermerebbe solo al Tavernello: resterebbero invenduti tutti i vini di "minore" qualità, tale cioè da non giustificare un prezzo di 10 €/litro. Più in generale: un bene resta invenduto, se si cerca di venderlo a un prezzo superiore rispetto a quello determinato dalla domanda e dall'offerta.
Analogamente, poiché il salario minimo impone un costo minimo per ogni ora di lavoro, rende invendibili le ore di lavoro che valgono di meno. Detto in altri termini, rende disoccupate tutte le persone le cui ore di lavoro valgono meno del minimo stabilito per legge.

Capiamo quindi perché gli statalisti siano così "modesti" nelle loro richieste: un salario minimo di 20 $ l'ora causerebbe più disoccupazione di uno pari a 15 $, ma meno di uno di 200 $ l'ora. Questo però non spiega come mai vogliano rendere disoccupate le persone con salario inferiore al minimo legale. Dobbiamo allora osservare quali siano le vittime e i carnefici del salario minimo. Le vittime sono i lavoratori con minore produttività; tipicamente si tratta di persone che appartengono alle classi meno istruite (immigrati o minoranze disagiate) o che mancano di esperienze lavorative (giovani).  I carnefici - cioè i maggiori proponenti di tale misura - sono principalmente gruppi politici razzisti/xenofobi e sindacati.

Ecco svelato il vero movente dietro all'introduzione di un salario minimo. Nella maggior parte dei casi, giovani, immigrati e appartenenti alle minoranze non sono iscritti alle associazioni sindacali. Essi fanno concorrenza ai lavoratori più anziani, sindacalizzati, autoctoni, maggiormente produttivi. Quindi, quando i secondi vogliono estromettere i primi dal mercato del lavoro, gli basta chiedere di aumentare il salario minimo. I sindacati sono il naturale portavoce delle loro istanze, e la politica è incline ad assecondarle: le vittime del salario minimo non sono quasi mai organizzate, hanno un basso tasso di affluenza alle elezioni, mentre i loro carnefici sanno sfruttare al meglio i meccanismi politici.
Stesso discorso per i gruppi razzisti/xenofobi. E' tristemente noto l'impegno dei bianchi sudafricani e dei loro sindacati, durante l'apartheid, per l'imposizione di un salario minimo per i lavoratori neri. Analogamente gli eugenisti americani, nei primi decenni del XX secolo, sostennero apertamente l'uso del salario minimo per rendere disoccupati gli "indesiderabili"; senza un lavoro, argomentavano, avrebbero smesso di prolificare. 

In conclusione, lo scopo del salario minimo non è quello di migliorare le condizioni dei lavoratori più disagiati, ma di farli licenziare. Sindacalisti e razzisti lo sanno bene, ed è per questo che sostengono tale misura. Ovviamente non dobbiamo dimenticare gli utili idioti: tutti coloro che, pur con buone intenzioni, appoggiano la legge per istituire - di fatto - una disoccupazione forzata

Weierstrass

PS: se chi sostiene il salario minimo credesse davvero nella bontà delle proprie idee, aprirebbe un'azienda e pagherebbe i propri dipendenti con quella cifra (superiore rispetto alle aziende concorrenti). Se avesse ragione, infatti, diventerebbe un imprenditore di successo. Strano che nessuno se la senta di farlo!

[1] Ciò che il lavoratore produce, viene venduto e genera un ricavo. Tolti tutti i costi legati alla produzione (materiali, affitti, bollette, etc) e tutte le tasse, ciò che rimane va a remunerare sia il lavoratore, sia l'imprenditore. 

[2] Come sappiamo, il capitale (cioè i mezzi di produzione) non cresce sugli alberi. Qualcuno - l'imprenditore - lo deve acquistare e mettere a disposizione dei propri dipendenti. Sarebbe un po' eccessivo pretendere che lo faccia gratuitamente, da cui deriva la necessità del profitto (cioè il guadagno dell'imprenditore). 


[3] Se l'azienda potesse alzare i prezzi dei suoi prodotti, senza alcun effetto negativo, l'avrebbe fatto in precedenza. Se i dipendenti avessero preferito lavorare con più impegno al fine di ottenere un salario maggiore, l'avrebbero proposto essi stessi alla propria azienda. 

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