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martedì 10 marzo 2015

Gli errori del protezionismo (2/2) - compra italiano!

Seconda ed ultima puntata dedicata alla fallacia delle politiche protezionistiche. Qui la prima parte. 



Come abbiamo visto nella scorsa puntata, non ha senso usare politiche protezionistiche al fine di tenere in attivo la bilancia commerciale. Il motivo, banalmente, è che le esportazioni servono solo a pagare le importazioni. 
Oggi commentiamo un'altra idea diffusa tra i protezionisti e riportata nell'immagine qui sopra: l'acquisto di merci straniere è (una presunta) causa della disoccupazione nazionale. Il ragionamento, a prima vista, sembra sensato: se compro un auto tedesca anziché una italiana, do lavoro agli operai tedeschi anziché a quelli italiani. Quindi le importazioni fanno chiudere le aziende nazionali e creano disoccupazione tra i lavoratori italiani [1]. Ma è proprio così?

Una prima obiezione consiste nell'osservare che la distinzione tra "Italiani" e "Tedeschi" è arbitraria. Per quale motivo una persona dovrebbe preferire i prodotti degli uni anziché quelli degli altri? L'unica differenza è che vivono su lati diversi di una linea invisibile (il confine). Ma potremmo tracciare una linea invisibile anche tra noi e le persone che vivono in una regione, una provincia, una città o una strada diversa dalla nostra. Si possono tracciare infinite linee invisibili. Non ha senso tenerne in conto una e trascurare le altre [2].

Particolarmente fallace è l'idea che a un cittadino italiano convenga comprare merci italiane. In realtà, per il singolo cittadino, non c'è alcuna differenza [3] tra comprare merci prodotte da altri Italiani (cioè da altri esseri umani che vivono aldiquà del confine) o da Tedeschi (cioè da altri esseri umani che vivono aldilà di una linea invisibile). Da un punto di vista economico, non c'è motivo per privilegiare la categoria degli "Italiani" anziché quella dei "Tedeschi".

Ma andiamo al nocciolo della questione. Come al solito, per capire un concetto fondamentale, è utile fare un esempio. Supponiamo che le politiche protezionistiche impediscano l'importazione di qualsiasi bene dall'estero. Chi volesse un'automobile potrebbe comprarne solo una italiana. Chi volesse un cellulare potrebbe comprarne solo uno italiano. Chi volesse un libro potrebbe comprarne solo uno italiano. Chi volesse del petrolio potrebbe comprare solo quello italiano. Etc. Questo non creerebbe forse milioni di posti di lavoro per gli Italiani? Non migliorerebbe il loro tenore di vita? 
Consideriamo il settore energetico (ma il ragionamento è analogo per gli altri beni): senza importazioni, il costo dell'energia crescerebbe fino a livelli molto elevati [4]. Il paese dovrebbe smettere di consumare energia - abbandonando automobili, PC, televisioni, macchinari industriali, etc. Certamente questo creerebbe dei posti di lavoro: aumenterebbe la domanda per biciclette, calessi, risciò e, più in generale, per prodotti artigianali italiani che non consumano (molta) energia. Ma, d'altra parte, verrebbero distrutti tutti i posti di lavoro fortemente legati al consumo di energia: industrie, centri di ricerca, settore informatico, etc. 
Quindi nessuno può affermare con certezza che la disoccupazione diminuirebbe: per tot posti di lavoro creati, altrettanti o più potrebbero essere distrutti. E' invece evidente che il tenore di vita dei cittadini calerebbe parecchio, poiché quest'ultimi dovrebbero rinunciare ai prodotti che preferiscono (divenuti troppo costosi in seguito al blocco delle importazioni) e ripiegare su quelli peggiori (gli unici effettivamente disponibili in tale situazione). 

Come sopra detto, questo ragionamento resta valido per tutti gli altri beni. Impedire l'acquisto di beni stranieri dal miglior rapporto qualità/prezzo peggiora la condizione dei cittadini: alcuni rinunceranno all'acquisto di ciò che desiderano, mentre altri saranno costretti ad accettare un rapporto qualità/prezzo inferiore. Abbiamo così ribadito un concetto già visto nell'analisi sul luddismo: non conta il numero dei lavoratori, ma la loro utilità (o produttività). Il libero commercio aumenta la produttività - come dimostrato dalla teoria dei vantaggi comparati - mentre il protezionismo la diminuisce [5]. 

Allora perché le teorie protezionistiche continuano ad essere sostenute da certi partiti politici? Abbiamo visto che, aggregando gli Italiani in un unico insieme, il protezionismo li danneggia. Ma, disaggregandoli, notiamo che il protezionismo ne avvantaggia alcuni (coloro che offrono beni/servizi peggiori rispetto ai concorrenti stranieri) a spese di tutti gli altri cittadini. 
Un'azienda che produce beni d'esportazione con un uso minimo di beni importati ottiene un beneficio da una svalutazione governativa del tasso di cambio, o da un aumento dei dazi verso le aziende straniere sue concorrenti; invece tutti gli altri cittadini ne ricevono un danno. Questa è una classica situazione di costi diffusi e benefici concentrati: il beneficio è concentrato su poche persone, mentre il costo è spalmato su tanti individui. L'azienda riceve un grosso beneficio a spese di tutti i cittadini, ma ciascun individuo riceve un danno relativamente piccolo. Perciò l'azienda è disposta a fare pressioni sulla politica e sui mezzi di informazione al fine di ottenere tale privilegio, mentre per la maggior parte dei cittadini non vale la pena di protestare contro di esso. Come spiega la teoria della scelta pubblica, la politica è naturalmente attratta da questo genere di situazioni. 
In conclusione: il protezionismo continua a essere sostenuto non perché abbia un qualche fondamento teorico, ma solo in virtù di una continua attività di lobbying [6]. 

Weierstrass

[1] Chiaramente si tratta di un'affermazione "imparentata" con quella discussa nella prima parte di quest'analisi. Chi chiede di diminuire le importazioni è solitamente a favore di una bilancia commerciale tenuta in attivo tramite politiche protezionistiche. Tuttavia l'idea del "Compra italiano!" è sottilmente diversa dalle considerazioni sulla bilancia commerciale; in un certo senso, è una posizione più radicale (e più errata). Si vogliono ridurre le importazioni anche quando la bilancia commerciale è già in attivo - per esempio, l'Italia ha un surplus di 5.8 miliardi di euro (dicembre 2014).

[2] Detto in parole più semplici: per essere coerente, un protezionista dovrebbe vietare ogni forma di commercio. Dovrebbe impedire il commercio tra regioni diverse, per evitare che una regione "rubi" lavoro a un'altra. Dovrebbe impedire il commercio tra province diverse, per evitare che una provincia "rubi" lavoro a un'altra. Etc. Alla fine, per la medesima logica, dovrebbe impedire il commercio tra persone diverse!

[3] Ovviamente si sta assumendo che la qualità e i prezzi delle merci siano uguali. Qualora le merci tedesche avessero qualità e prezzi migliori di quelle italiane, sarebbe evidente il vantaggio nel comprare le prime.


[4] Essendo la produzione nazionale scarsa rispetto ai consumi attuali, quest'ultimi sarebbero costretti a contrarsi. In particolare, l'eccesso di domanda rispetto all'offerta disponibile causerebbe un aumento notevole dei prezzi.


[5] Consideriamo un altro esempio molto semplice. Un informatico fa uso di tecnologia tipicamente prodotta (o, perlomeno, assemblata) all'estero. Se quella tecnologia dovesse essere prodotta interamente in Italia, verrebbe a costare di più - altrimenti non ci sarebbe bisogno di importarla! Dunque, a parità di lavoro svolto dall'informatico, la sua azienda deve affrontare costi maggiori. Per definizione, la produttività del lavoratore informatico cala. Il calo indotto dalle politiche protezionistiche può essere talmente elevato da "costringere" l'informatico a cambiare lavoro.


[6] Non è nulla di "nascosto" o di illegale, intendiamoci. Di recente (gennaio/febbraio 2015) la Banca Centrale svizzera ha subito le proteste di alcuni imprenditori elvetici a seguito dell'apprezzamento del franco sull'euro. In pratica, alcune aziende stanno chiedendo apertamente di svalutare il franco per il proprio tornaconto. 

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